Fotografia di Fiorella Rizzo
58° Biennale di Venezia
Inizio a scrivere sulla 58. Biennale di Venezia dall’opera che non c’è. Un silenzio irreale avvolge il Padiglione del Venezuela, lo spazio è vuoto, anche l’aiuola non ha più piante, non ricordo cosa ci fosse in passato. Chi entra, guarda e legge uno scritto affisso su un muro: parla della “Poetica spaziale del Padiglione del Venezuela a Venezia” progettato sessantuno anni fa dall’architetto italiano Carlo Scarpa e dei lavori di restauro per riportarlo alla condizione originaria, ma mai iniziati. Niente avrebbe potuto raccontare meglio la situazione politica del Venezuela, quel silenzio che avvolge il Padiglione chiuso racconta e carica la stessa architettura di una drammaticità non prevista, anche le voci di chi entra si smorzano come in un luogo che chiede rispetto.
Tutto questo dopo aver visto sempre ai Giardini il Padiglione Centrale che quest’anno ospita solo due artisti italiani: Ludovica Carbotta e Lara Favaretto, la quale offusca l’ingresso del Padiglione con del vapore, ne abbiamo visto già tanto in passato, ma nonostante la nebbia la scritta di pietra ITALIA resta, forse, ancora più visibile a ricordarci che una volta anche noi eravamo lì.
“Abbiamo visto troppo” e, forse, non ci siamo ancora abituati a veder poco. La Mostra di Ralph Rugoff ai Giardini sembra un grande Stand di una grande Fiera d’Arte con artisti, nella maggioranza, residenti a New York e provenienti più o meno dalle stesse Gallerie, troppo poco per parlare di una mostra internazionale. Tante brutta pittura alternata a qualche scultura a muro e qualcuna al centro, come nei più convenzionali stand fieristici. Emergono quattro cinque opere che ci ricordano che siamo alla Biennale di Venezia: un cancello che sbatte e si dibatte tra chiusura e apertura, opera dell’artista indiana Shilpa Gupta, peccato che nello stesso ambiente ci sia una finta mucca a grandezza naturale su binari in un finto prato verde. C’è un pezzo di muro del Messico di Teresa Margolles e, ancora, un’enorme pala meccanica di Sun Yuan e Peng Yu che pulisce un colore rossastro sul pavimento simile a sangue.
La situazione migliora un pò all’Arsenale, qui occorre misurarsi con un enorme spazio senza barriere, collocare le opere è veramente difficile senza un intervento che scandisca lo spazio quando le opere non riescono a farlo. In un’intervista su Artribune Ralph Rugoff parlando di questo spazio ammette: “una grande rassegna diventando un baraccone annulla le opere”, ma non sono forse molte opere presenti a creare un grande baraccone? Quando si gira tra cose spesso poco interessanti diventa difficile anche vedere che cosa c’è di buono, troppe le opere, infatti, che non parlano di un “tempo interessante”, ma di un tempo manipolato.
Alla fine di queste mie brevi considerazioni sulla Mostra di questa Biennale sento il dovere, in nome dell’Arte, di fare un omaggio ad un anziano artista Stanislav Kolíbal (1925) presente nel Padiglione della Repubblica Ceca e Slovacca. Nelle sue opere, pur così rigorose, qualsiasi segno, una linea, un ferro o uno spago, diventano fortemente poetici dilatandosi in un invisibile che va oltre la stessa geometria che li definisce. Che piacere ho provato nello stringergli la mano.
Inizio a scrivere sulla 58. Biennale di Venezia dall’opera che non c’è. Un silenzio irreale avvolge il Padiglione del Venezuela, lo spazio è vuoto, anche l’aiuola non ha più piante, non ricordo cosa ci fosse in passato. Chi entra, guarda e legge uno scritto affisso su un muro: parla della “Poetica spaziale del Padiglione del Venezuela a Venezia” progettato sessantuno anni fa dall’architetto italiano Carlo Scarpa e dei lavori di restauro per riportarlo alla condizione originaria, ma mai iniziati. Niente avrebbe potuto raccontare meglio la situazione politica del Venezuela, quel silenzio che avvolge il Padiglione chiuso racconta e carica la stessa architettura di una drammaticità non prevista, anche le voci di chi entra si smorzano come in un luogo che chiede rispetto.
Tutto questo dopo aver visto sempre ai Giardini il Padiglione Centrale che quest’anno ospita solo due artisti italiani: Ludovica Carbotta e Lara Favaretto, la quale offusca l’ingresso del Padiglione con del vapore, ne abbiamo visto già tanto in passato, ma nonostante la nebbia la scritta di pietra ITALIA resta, forse, ancora più visibile a ricordarci che una volta anche noi eravamo lì.
“Abbiamo visto troppo” e, forse, non ci siamo ancora abituati a veder poco. La Mostra di Ralph Rugoff ai Giardini sembra un grande Stand di una grande Fiera d’Arte con artisti, nella maggioranza, residenti a New York e provenienti più o meno dalle stesse Gallerie, troppo poco per parlare di una mostra internazionale. Tante brutta pittura alternata a qualche scultura a muro e qualcuna al centro, come nei più convenzionali stand fieristici. Emergono quattro cinque opere che ci ricordano che siamo alla Biennale di Venezia: un cancello che sbatte e si dibatte tra chiusura e apertura, opera dell’artista indiana Shilpa Gupta, peccato che nello stesso ambiente ci sia una finta mucca a grandezza naturale su binari in un finto prato verde. C’è un pezzo di muro del Messico di Teresa Margolles e, ancora, un’enorme pala meccanica di Sun Yuan e Peng Yu che pulisce un colore rossastro sul pavimento simile a sangue.
La situazione migliora un pò all’Arsenale, qui occorre misurarsi con un enorme spazio senza barriere, collocare le opere è veramente difficile senza un intervento che scandisca lo spazio quando le opere non riescono a farlo. In un’intervista su Artribune Ralph Rugoff parlando di questo spazio ammette: “una grande rassegna diventando un baraccone annulla le opere”, ma non sono forse molte opere presenti a creare un grande baraccone? Quando si gira tra cose spesso poco interessanti diventa difficile anche vedere che cosa c’è di buono, troppe le opere, infatti, che non parlano di un “tempo interessante”, ma di un tempo manipolato.
Alla fine di queste mie brevi considerazioni sulla Mostra di questa Biennale sento il dovere, in nome dell’Arte, di fare un omaggio ad un anziano artista Stanislav Kolíbal (1925) presente nel Padiglione della Repubblica Ceca e Slovacca. Nelle sue opere, pur così rigorose, qualsiasi segno, una linea, un ferro o uno spago, diventano fortemente poetici dilatandosi in un invisibile che va oltre la stessa geometria che li definisce. Che piacere ho provato nello stringergli la mano.