15 Settembre 2019 by Donatella Pinocci
H.H.Lim e Bonito Oliva, trittico Four Seasons,
photo by Donatella Pinocci
Padiglione Malesia
Il Padiglione della Malesia presentato dal Ministero del Turismo e dell’Arte e Cultura della Malaysia (Commissario Prof. Dato’ Dr Mohamed Najib Dawa) esordisce per la prima volta alla cinquantottesima Biennale di Venezia, con la mostra Holding Up a Mirror curata da Lim Wei-Ling. In risposta al tema May You Live in Interesting Times proposto dal curatore Ralph Rugoff, è possibile conoscere la proposta artistica di quattro artisti malesi – Zulkifli Yusoff, H.H. Lim, Arinderendra Jegadeva e Ivan Lam presso Palazzo Malipiero, dal 09 maggio al 24 novembre 2019. Le quattro visioni, descritte dettagliatamente dallo scrittore Gowri Balasegaram, rispecchiano la diversità di etnie ed origini degli autori che vengono accomunate dal concetto di identità rispetto: all’io, la società, la cultura e la storia. La soggettività delle visioni definisce l’essenza dell’identità malese caratterizzata dalla confluenza eterogenea di culture e storie. In un momento storico di grande trasformazione politica e sociale del Paese, la mostra definisce uno spazio simbolico in cui “il personale e il pubblico si intersecano, dove mito e storia si scontrano e dove vengono costruite prospettive nazionali e internazionali”.
Il titolo Holding Up a Mirror, è una citazione tratta dall’Amleto, di William Shakespeare, che letteralmente significa “alzare uno specchio” ovvero rappresentare qualcosa com’è realmente. La mostra diventa un’occasione per riflettere sul concetto di Verità e sulla necessità di “alzare uno specchio” per distinguere la recitazione dal vero e l’immagine riflessa dalla realtà. Oggi, immersi in scenari di multi-verità contrapposte, che ci contaminano come virus, nasce il bisogno di individuare il Vero attraverso lo sviluppo di un senso critico di lettura della realtà e della storia.
Zulkifli Yusoff con Kebun Pak Awang (Mr Awang’s Garden) esprime un inno ad uno stile di vita e ai valori che oggi vengono erosi;
H.H. Lim con Timeframes costituisce un’antologia di viaggi cerebrali e fisici dell’io espresse da azioni che tentano di trasporre l’astratto al fisico;
Anurendra Jegadeva con Yestarday allestisce una sala imbottita che diventa un vortice satirico di cultura contemporanea;
mentre, di Ivan Lam con One Inch esplora lo spazio tra “l’io e il noi”.
L’artista Zulkifli Yusoff parte dal concetto di identità personale che estende a livello nazionale passando per la storia-socio-politica della Malesia. L’uso del simbolo allude a narrazioni, talvolta nostalgiche, per rafforzare sia il senso di appartenenza etnica e memoria.
Kebun Pak Awang è un’installazione che prende il nome dall’omonimo programma radiofonico trasmesso negli anni ’70, in cui una famiglia di agricoltori incoraggiava i malesi a coltivare i propri prodotti. Di fatto si manifestò un’efficace propaganda, che permise in fase post-colonialista di rendere il paese più autosufficiente e migliorare il sostentamento degli agricoltori. Un altro intervento di Yusoff intitolato Tun Eazak Speech Series – The Green Book si basa sui discorsi e le politiche di Tun Abdul Razak Primo Ministro della Malesia. Il programma del Green Book costituiva l’attuazione dell’iniziativa agricola di Tun Razak, che nel 1974 tendeva esattamente a potenziare nel paese le capacià rurali, per migliorare le condizioni di vita degli agricoltori. Molti di loro infatti in quegli anni avevano sofferto del calo dei prezzi della gomma, di cui la Malesia era un grande esportatrice. I piccoli agricoltori frammentati sono stati incentivati a riunirsi per formare cooperative che facilitassero la produzione commerciale su larga scala. Coltivare per il proprio consumo avrebbe ridotto il carico dell’inflazione e della recessione. In questo modo Kebun Pak Awang ricorda un periodo in cui lo sviluppo della nazione era considerato una responsabilità collettiva. L’installazione è costituita da oggetti/simbolo in legno, montata su pareti contrapposte e disposte secondo uno schema geometrico. Sugli oggetti sono stati stampati motivi di frutti tropicali – o semi tridimensionali. Questi, inseriti su una griglia ordinata, suggeriscono l’idea delle trappole della coltivazione più strutturata. Una carriola di legno, un carrello da traino, scaffalature seriali per contenere i “prodotti” e una pavimentazione che ricorda i tappeti di rafia (così onnipresenti nelle case di Kampung) sono tutti coperti con lo stesso motivo di frutta esotica. L’insieme ricorda una piantagione rurale o un frutteto in un Kampung. La modalità di rappresentazione serigrafata cita il metodo scientifico colionalista di rappresentare e classificare l’esotico in modo rigoroso.
L’artista, riferendosi al concetto di identità nazionale, ripende le due teorie contrastanti degli scienziati politici Benedict Anderson e Patha Chattergee, che nel periodo post-coloniale asiatico, tendevano a delineare previsioni di sviluppo economico. Anderson immaginava modelli di sviluppo occidentali, mentre Chattergee sosteneva che l’immagine nazionalista asiatica avrebbe avuto connotazioni differenti dall’occidente. L’installazione simbolicamente denuncia il pericolo di perdita di identità in un paese come la Malesia (di recente indipendenza coloniale) a rischio di omologazione.
Il simbolismo utilizzato (frutti tropicali tipici del paesaggio malese) fa riferimento all’identità spirituale malese, insita negli elementi del paesaggio, della famiglia e del linguaggio. Sono questi gli aspetti che hanno dato forma alla nascita e alla crescita della nazione e al suo senso civico. Il bene dell’individuo e il bene sociale si legano in modo imprescindibile.
H.H. Lim si astrae dal concetto spaziotemporale per proporre un’installazione articolata di arte concettuale. L’artista colloca il fruitore direttamente nei suoi paesaggi mentali. Tanto la vita, quanto l’espressione artistica, si collocano tra oriente ed occidente in forme espressive che vanno dal video, alle installazioni, pittura e performance.
Nato in Malesia, vive a Roma dal 1976. Il viaggio e l’essere in bilico tra le due tradizioni culturali caratterizza la ricerca di linguaggio e le esplorazioni concettuali fatte di stratificazioni eterogenee di memoria.
Per la Biennale Lim propone Timeframes: un’antologia personale di esperienze e di indagini espresse in una varietà di modalità estetiche. Timeframes comprende: Four Seasons (2019), Common Sense, nonché Sitting Sculputure: un’installazione di sedie poste al centro della sala. Sulle pareti perimetrali si possono vedere quattro video: Patience ( 2002), Enter the Parallel Word (2001-2002), Red Room (2004) e Falò (2017). L’elemento connettivo dell’installazione è costituito dall’elemento sedia, che si sposta, si cela o appare da protagonista.
Sitting Sculptures, è un’installazione che prevede il posizionamento nello spazio centrale della sala, di 28 sedie, 28 opere d’arte, 28 elementi simbolici dotati di unicità e carattere. Queste, liberamente e democraticamente disposte, sono pronte a cedere il ruolo da protagoniste per tornare ad essere semplici oggetti di uso quotidiano. Ogni sedia ha una seduta in metallo su cui sono scolpite parole casuali. La sedia, oscilla nel duplice ruolo di opera d’arte e oggetto fisico legato alla quotidianità. Secondo H.H. Lim stando su una sedia, nelle varie condizioni d’uso possibili, agisce il nostro inconscio da cui scaturiscono le idee. La sedia per l’autore costituisce una sorta di ponte per entrare in relazione con le altre opere dell’installazione. Four Seasons, è un trittico dipinto e posto frontalmente rispetto alle 28 sedie. Rappresenta il panorama delle esperienze vissute dall’artista e maturate negli anni. H.H. Lim allestisce una sorta di paesaggio di simboli fluttuanti, come nel mare dell’inconscio. L’opera, di fatto, è un accumulo di significati costruito per stratificazioni di memoria. Dal tracciato simbolico dell’inconscio individuale dell’autore, è possibile universalizzare l’esperienza riportandola all’Uomo. Infatti la comune matrice esperienziale è costituita dalla stratificazione di esperienze di ogni vita. Le parole malesi Selatan, Timur, Utara e Barat (Sud, Est, Nord e Ovest) dipinte sull’opera (orizzontalmente in alto a sinistra) alludono alle esperienze vissute dall’artista tra Oriente e Occidente. La ricerca di un linguaggio fatto di simboli, grafie spirituali, spazi vuoti per il divenire, o stratificati in riferimento al vissuto, generano magnetismo in cui ognuno può ritrovare una parte di sé.
Falò, è un’installazione video: la documentazione di una performance di Lim al festival Focara di Novoli, durante la quale l’artista ha dato fuoco ai resti di un banchetto, tra cui tutte le sedie.
Torna l’elemento sedia, che in questo caso tenta con il fuoco di cancellare la propria ombra. Lim in questo caso fa riferimento alle teorie di psicoanalisi di Carl Jung, che ha ideato l’ombra, come simbolo del lato oscuro dell’uomo. Le sedie di Lim, oggetto-simbolo della propria ricerca artistica, sono la sede della creatività, luogo in cui l’artista, raggiunta la maturità, viene a patti con “l’oscurità della propria ombra”.
Attraverso quattro opere video: Patience, Enter e Parallel Word e Red Room l’artista rappresenta tre virtù pazienza, equilibrio mentale e autocontrollo espresse attraverso atti fisici. Queste trasmesse dalla madre dell’artista nella fase di formazione (crescita e di educazione) ricorrono e definiscono il percorso. Nel trasporre queste virtù in atti fisici troviamo l’azione di pescare in una vasca sospesa a 3 cm sopra l’acqua, lo stare in equilibrio su una palla e “l’inchiodare” la lingua sul tavolo. Lim usa il proprio corpo come soggetto dell’opera, in una posizione sia attiva che passiva. Infatti. attraverso esibizioni giocose e irriverenti in stile Dada ricorre al simbolo per creare nuovi significati.
Anurendra Jegadeva Yesterday in a Padded Room (2015) propone un’installazione, che riflette il mondo saturo di immagini e di messaggi. Questi, portati all’eccesso sconfinano nella perdita di significato e nel caos. L’artista osserva criticamente la realtà guardandola attraverso lenti satiriche, che mettono in scena l’anomalia sociale teorizzata a Fredric Jameson nel suo libro Post Modernism o The Cultural Logic of Late Capitalism. L’installazione si riferisce, nella pessimistica visione futura, alle teorie che prevedono l’avvento di una nuova situazione storica in cui saremo“condannati a cercare la storia attraverso le nostre immagini pop e i simulacri di quella storia”.
In una sala imbottita rivestita di cuscini si cita un estratto dal mistico Annali di Kedah della letteratura malese 18 °secolo riguardante la fondazione dello stato malese di Kedah. L’installazione raffigura la sala scenario di guerra tra due monarchi, due troni dorati vuoti che brillano languiscono al centro di un pavimento di tela cerata raffigurante un mare di squali.
Secondo il testo, Garuda la divinità indù e Salomone, il musulmano e il monarca, si accordarono per dividere il sud-est asiatico – la terra a nord del confine thailandese sarebbe diventata indù; la terra del sud musulmana. Sculture rappresentanti Garuda e Salomone sporgono dallo schienale di ogni trono.
La sala allude alla cella di un pazzo, le cui pareti imbottite (rivestite da cuscini) rappresentano immagini di regine, eroi, esseri cattivi, santità e peccatori, animatori e dilettanti, dotti e sciocchi.
L’opera di Jagadeva è essenzialmente una visione sarcastica del nostro amore per il kitsch e per le pastiche. I troni dorati scintillanti dell’installazione, le luci lampeggianti e l’abbondanza di accessori da negozio evidenziano la sgargiante realtà del nostro desiderio quotidiano. I ritratti sui cuscini imbottiti indicano sia la nostra ossessione per la fama, la celebrità e il “culto della personalità”: da Elvis a Stalin fino a Lord Muruga che l’esigenza di “iconizzare eroi e criminali: Hitler e Gandhi, Imelda Marcos e Cory Aquino, Johnny Cash e Johnny Rotten”.
Nei ritratti di Jagadeva il significato si perde, la storicità di ogni icona si dissipa, la virtù e l’immoralità si confondono, il passato e il presente diventano indistinguibili, e il mito e la storia convergono riducendo in effetti la storia a un’ideologia del consumo di massa e di Kitch.
One Inch (2019) di Ivan Lam.
One Inch, è un’ installazione-promemoria sulla necessità di porsi ad una certa distanza da noi stessi per avere chiarezza ed obiettività nella comprensione. L’occasione si presta per riflettere anche sulla vicinanza e distanza che esiste tra l’io e l’altro.
L’installazione è ambientata in una piccola stanza completamente buia, nella quale vengono posizionati 19 schermi televisivi posti a vista, ma con il display rivolto verso la parete perimetrale ad una distanza di un pollice. Dal buio affiorano i profili di luce dei display, che conferiscono una sorta di aura agli oggetti.
La sala buia rappresenta per l’artista il ricettacolo del nostro subconscio in cui gli schermi danno le spalle allo spettatore. La sonorizzazione è a ciclo continuo e comprende la sommatoria audio di film malesi dal 1900 ad oggi. L’alternanza delle sequenze audio e video degli schermi non si ripete, ma si genera in modo random sempre diversificato. Entrando nella stanza, lo spettatore è immerso sia nell’oscurità, che nella luce perimetrica dei display, mentre l’audio satura lo spazio con un rumore stratificato e indistinguibile: un rumore bianco. La sonorizzazione degli spazi produce un audio polifonico familiare che innesca nello spettatore la prontezza alla partecipazione, nel regno del “noi”, negato istantaneamente dalla visione dei display che disilludono lo spettatore.
L’opera di Ivan Lam intende sovvertire e risvegliare gli spettatori rispetto a quanto previsto dal trattato Understanding Media, The Extensions of Man, che il teorico della comunicazione Marshall McLuhan ha teorizzato nel 1964, sostenendo che la cultura e le società sono modellate dai loro media. I media vengono intesi come estensioni tecnologiche del corpo, ed assumono il potere di entrare immediatamente ed intimamente nelle case degli spettatori abbattendo le barriere del tempo e dello spazio. La sensibilità degli spettatori è drammaticamente influenzata da questa partecipazione che si fonde e si diffonde alla collettività generando il “villaggio globale”: un villaggio globale superficiale e manipolabile. L’installazione di Ivan Lam può risultare inquietante in quanto genera un non luogo infatti non è né un luogo dell” io né un luogo del” noi “, ma è un luogo di separazione: uno spazio altro, di alterità. E’ in questo spazio che è possibile sperimentare il superamento sensoriale dei nostri limiti, per attivare un processo di rinnovamento e di auto-trascendenza.
Il Padiglione della Malesia presentato dal Ministero del Turismo e dell’Arte e Cultura della Malaysia (Commissario Prof. Dato’ Dr Mohamed Najib Dawa) esordisce per la prima volta alla cinquantottesima Biennale di Venezia, con la mostra Holding Up a Mirror curata da Lim Wei-Ling. In risposta al tema May You Live in Interesting Times proposto dal curatore Ralph Rugoff, è possibile conoscere la proposta artistica di quattro artisti malesi – Zulkifli Yusoff, H.H. Lim, Arinderendra Jegadeva e Ivan Lam presso Palazzo Malipiero, dal 09 maggio al 24 novembre 2019. Le quattro visioni, descritte dettagliatamente dallo scrittore Gowri Balasegaram, rispecchiano la diversità di etnie ed origini degli autori che vengono accomunate dal concetto di identità rispetto: all’io, la società, la cultura e la storia. La soggettività delle visioni definisce l’essenza dell’identità malese caratterizzata dalla confluenza eterogenea di culture e storie. In un momento storico di grande trasformazione politica e sociale del Paese, la mostra definisce uno spazio simbolico in cui “il personale e il pubblico si intersecano, dove mito e storia si scontrano e dove vengono costruite prospettive nazionali e internazionali”.
Il titolo Holding Up a Mirror, è una citazione tratta dall’Amleto, di William Shakespeare, che letteralmente significa “alzare uno specchio” ovvero rappresentare qualcosa com’è realmente. La mostra diventa un’occasione per riflettere sul concetto di Verità e sulla necessità di “alzare uno specchio” per distinguere la recitazione dal vero e l’immagine riflessa dalla realtà. Oggi, immersi in scenari di multi-verità contrapposte, che ci contaminano come virus, nasce il bisogno di individuare il Vero attraverso lo sviluppo di un senso critico di lettura della realtà e della storia.
Zulkifli Yusoff con Kebun Pak Awang (Mr Awang’s Garden) esprime un inno ad uno stile di vita e ai valori che oggi vengono erosi;
H.H. Lim con Timeframes costituisce un’antologia di viaggi cerebrali e fisici dell’io espresse da azioni che tentano di trasporre l’astratto al fisico;
Anurendra Jegadeva con Yestarday allestisce una sala imbottita che diventa un vortice satirico di cultura contemporanea;
mentre, di Ivan Lam con One Inch esplora lo spazio tra “l’io e il noi”.
L’artista Zulkifli Yusoff parte dal concetto di identità personale che estende a livello nazionale passando per la storia-socio-politica della Malesia. L’uso del simbolo allude a narrazioni, talvolta nostalgiche, per rafforzare sia il senso di appartenenza etnica e memoria.
Kebun Pak Awang è un’installazione che prende il nome dall’omonimo programma radiofonico trasmesso negli anni ’70, in cui una famiglia di agricoltori incoraggiava i malesi a coltivare i propri prodotti. Di fatto si manifestò un’efficace propaganda, che permise in fase post-colonialista di rendere il paese più autosufficiente e migliorare il sostentamento degli agricoltori. Un altro intervento di Yusoff intitolato Tun Eazak Speech Series – The Green Book si basa sui discorsi e le politiche di Tun Abdul Razak Primo Ministro della Malesia. Il programma del Green Book costituiva l’attuazione dell’iniziativa agricola di Tun Razak, che nel 1974 tendeva esattamente a potenziare nel paese le capacià rurali, per migliorare le condizioni di vita degli agricoltori. Molti di loro infatti in quegli anni avevano sofferto del calo dei prezzi della gomma, di cui la Malesia era un grande esportatrice. I piccoli agricoltori frammentati sono stati incentivati a riunirsi per formare cooperative che facilitassero la produzione commerciale su larga scala. Coltivare per il proprio consumo avrebbe ridotto il carico dell’inflazione e della recessione. In questo modo Kebun Pak Awang ricorda un periodo in cui lo sviluppo della nazione era considerato una responsabilità collettiva. L’installazione è costituita da oggetti/simbolo in legno, montata su pareti contrapposte e disposte secondo uno schema geometrico. Sugli oggetti sono stati stampati motivi di frutti tropicali – o semi tridimensionali. Questi, inseriti su una griglia ordinata, suggeriscono l’idea delle trappole della coltivazione più strutturata. Una carriola di legno, un carrello da traino, scaffalature seriali per contenere i “prodotti” e una pavimentazione che ricorda i tappeti di rafia (così onnipresenti nelle case di Kampung) sono tutti coperti con lo stesso motivo di frutta esotica. L’insieme ricorda una piantagione rurale o un frutteto in un Kampung. La modalità di rappresentazione serigrafata cita il metodo scientifico colionalista di rappresentare e classificare l’esotico in modo rigoroso.
L’artista, riferendosi al concetto di identità nazionale, ripende le due teorie contrastanti degli scienziati politici Benedict Anderson e Patha Chattergee, che nel periodo post-coloniale asiatico, tendevano a delineare previsioni di sviluppo economico. Anderson immaginava modelli di sviluppo occidentali, mentre Chattergee sosteneva che l’immagine nazionalista asiatica avrebbe avuto connotazioni differenti dall’occidente. L’installazione simbolicamente denuncia il pericolo di perdita di identità in un paese come la Malesia (di recente indipendenza coloniale) a rischio di omologazione.
Il simbolismo utilizzato (frutti tropicali tipici del paesaggio malese) fa riferimento all’identità spirituale malese, insita negli elementi del paesaggio, della famiglia e del linguaggio. Sono questi gli aspetti che hanno dato forma alla nascita e alla crescita della nazione e al suo senso civico. Il bene dell’individuo e il bene sociale si legano in modo imprescindibile.
H.H. Lim si astrae dal concetto spaziotemporale per proporre un’installazione articolata di arte concettuale. L’artista colloca il fruitore direttamente nei suoi paesaggi mentali. Tanto la vita, quanto l’espressione artistica, si collocano tra oriente ed occidente in forme espressive che vanno dal video, alle installazioni, pittura e performance.
Nato in Malesia, vive a Roma dal 1976. Il viaggio e l’essere in bilico tra le due tradizioni culturali caratterizza la ricerca di linguaggio e le esplorazioni concettuali fatte di stratificazioni eterogenee di memoria.
Per la Biennale Lim propone Timeframes: un’antologia personale di esperienze e di indagini espresse in una varietà di modalità estetiche. Timeframes comprende: Four Seasons (2019), Common Sense, nonché Sitting Sculputure: un’installazione di sedie poste al centro della sala. Sulle pareti perimetrali si possono vedere quattro video: Patience ( 2002), Enter the Parallel Word (2001-2002), Red Room (2004) e Falò (2017). L’elemento connettivo dell’installazione è costituito dall’elemento sedia, che si sposta, si cela o appare da protagonista.
Sitting Sculptures, è un’installazione che prevede il posizionamento nello spazio centrale della sala, di 28 sedie, 28 opere d’arte, 28 elementi simbolici dotati di unicità e carattere. Queste, liberamente e democraticamente disposte, sono pronte a cedere il ruolo da protagoniste per tornare ad essere semplici oggetti di uso quotidiano. Ogni sedia ha una seduta in metallo su cui sono scolpite parole casuali. La sedia, oscilla nel duplice ruolo di opera d’arte e oggetto fisico legato alla quotidianità. Secondo H.H. Lim stando su una sedia, nelle varie condizioni d’uso possibili, agisce il nostro inconscio da cui scaturiscono le idee. La sedia per l’autore costituisce una sorta di ponte per entrare in relazione con le altre opere dell’installazione. Four Seasons, è un trittico dipinto e posto frontalmente rispetto alle 28 sedie. Rappresenta il panorama delle esperienze vissute dall’artista e maturate negli anni. H.H. Lim allestisce una sorta di paesaggio di simboli fluttuanti, come nel mare dell’inconscio. L’opera, di fatto, è un accumulo di significati costruito per stratificazioni di memoria. Dal tracciato simbolico dell’inconscio individuale dell’autore, è possibile universalizzare l’esperienza riportandola all’Uomo. Infatti la comune matrice esperienziale è costituita dalla stratificazione di esperienze di ogni vita. Le parole malesi Selatan, Timur, Utara e Barat (Sud, Est, Nord e Ovest) dipinte sull’opera (orizzontalmente in alto a sinistra) alludono alle esperienze vissute dall’artista tra Oriente e Occidente. La ricerca di un linguaggio fatto di simboli, grafie spirituali, spazi vuoti per il divenire, o stratificati in riferimento al vissuto, generano magnetismo in cui ognuno può ritrovare una parte di sé.
Falò, è un’installazione video: la documentazione di una performance di Lim al festival Focara di Novoli, durante la quale l’artista ha dato fuoco ai resti di un banchetto, tra cui tutte le sedie.
Torna l’elemento sedia, che in questo caso tenta con il fuoco di cancellare la propria ombra. Lim in questo caso fa riferimento alle teorie di psicoanalisi di Carl Jung, che ha ideato l’ombra, come simbolo del lato oscuro dell’uomo. Le sedie di Lim, oggetto-simbolo della propria ricerca artistica, sono la sede della creatività, luogo in cui l’artista, raggiunta la maturità, viene a patti con “l’oscurità della propria ombra”.
Attraverso quattro opere video: Patience, Enter e Parallel Word e Red Room l’artista rappresenta tre virtù pazienza, equilibrio mentale e autocontrollo espresse attraverso atti fisici. Queste trasmesse dalla madre dell’artista nella fase di formazione (crescita e di educazione) ricorrono e definiscono il percorso. Nel trasporre queste virtù in atti fisici troviamo l’azione di pescare in una vasca sospesa a 3 cm sopra l’acqua, lo stare in equilibrio su una palla e “l’inchiodare” la lingua sul tavolo. Lim usa il proprio corpo come soggetto dell’opera, in una posizione sia attiva che passiva. Infatti. attraverso esibizioni giocose e irriverenti in stile Dada ricorre al simbolo per creare nuovi significati.
Anurendra Jegadeva Yesterday in a Padded Room (2015) propone un’installazione, che riflette il mondo saturo di immagini e di messaggi. Questi, portati all’eccesso sconfinano nella perdita di significato e nel caos. L’artista osserva criticamente la realtà guardandola attraverso lenti satiriche, che mettono in scena l’anomalia sociale teorizzata a Fredric Jameson nel suo libro Post Modernism o The Cultural Logic of Late Capitalism. L’installazione si riferisce, nella pessimistica visione futura, alle teorie che prevedono l’avvento di una nuova situazione storica in cui saremo“condannati a cercare la storia attraverso le nostre immagini pop e i simulacri di quella storia”.
In una sala imbottita rivestita di cuscini si cita un estratto dal mistico Annali di Kedah della letteratura malese 18 °secolo riguardante la fondazione dello stato malese di Kedah. L’installazione raffigura la sala scenario di guerra tra due monarchi, due troni dorati vuoti che brillano languiscono al centro di un pavimento di tela cerata raffigurante un mare di squali.
Secondo il testo, Garuda la divinità indù e Salomone, il musulmano e il monarca, si accordarono per dividere il sud-est asiatico – la terra a nord del confine thailandese sarebbe diventata indù; la terra del sud musulmana. Sculture rappresentanti Garuda e Salomone sporgono dallo schienale di ogni trono.
La sala allude alla cella di un pazzo, le cui pareti imbottite (rivestite da cuscini) rappresentano immagini di regine, eroi, esseri cattivi, santità e peccatori, animatori e dilettanti, dotti e sciocchi.
L’opera di Jagadeva è essenzialmente una visione sarcastica del nostro amore per il kitsch e per le pastiche. I troni dorati scintillanti dell’installazione, le luci lampeggianti e l’abbondanza di accessori da negozio evidenziano la sgargiante realtà del nostro desiderio quotidiano. I ritratti sui cuscini imbottiti indicano sia la nostra ossessione per la fama, la celebrità e il “culto della personalità”: da Elvis a Stalin fino a Lord Muruga che l’esigenza di “iconizzare eroi e criminali: Hitler e Gandhi, Imelda Marcos e Cory Aquino, Johnny Cash e Johnny Rotten”.
Nei ritratti di Jagadeva il significato si perde, la storicità di ogni icona si dissipa, la virtù e l’immoralità si confondono, il passato e il presente diventano indistinguibili, e il mito e la storia convergono riducendo in effetti la storia a un’ideologia del consumo di massa e di Kitch.
One Inch (2019) di Ivan Lam.
One Inch, è un’ installazione-promemoria sulla necessità di porsi ad una certa distanza da noi stessi per avere chiarezza ed obiettività nella comprensione. L’occasione si presta per riflettere anche sulla vicinanza e distanza che esiste tra l’io e l’altro.
L’installazione è ambientata in una piccola stanza completamente buia, nella quale vengono posizionati 19 schermi televisivi posti a vista, ma con il display rivolto verso la parete perimetrale ad una distanza di un pollice. Dal buio affiorano i profili di luce dei display, che conferiscono una sorta di aura agli oggetti.
La sala buia rappresenta per l’artista il ricettacolo del nostro subconscio in cui gli schermi danno le spalle allo spettatore. La sonorizzazione è a ciclo continuo e comprende la sommatoria audio di film malesi dal 1900 ad oggi. L’alternanza delle sequenze audio e video degli schermi non si ripete, ma si genera in modo random sempre diversificato. Entrando nella stanza, lo spettatore è immerso sia nell’oscurità, che nella luce perimetrica dei display, mentre l’audio satura lo spazio con un rumore stratificato e indistinguibile: un rumore bianco. La sonorizzazione degli spazi produce un audio polifonico familiare che innesca nello spettatore la prontezza alla partecipazione, nel regno del “noi”, negato istantaneamente dalla visione dei display che disilludono lo spettatore.
L’opera di Ivan Lam intende sovvertire e risvegliare gli spettatori rispetto a quanto previsto dal trattato Understanding Media, The Extensions of Man, che il teorico della comunicazione Marshall McLuhan ha teorizzato nel 1964, sostenendo che la cultura e le società sono modellate dai loro media. I media vengono intesi come estensioni tecnologiche del corpo, ed assumono il potere di entrare immediatamente ed intimamente nelle case degli spettatori abbattendo le barriere del tempo e dello spazio. La sensibilità degli spettatori è drammaticamente influenzata da questa partecipazione che si fonde e si diffonde alla collettività generando il “villaggio globale”: un villaggio globale superficiale e manipolabile. L’installazione di Ivan Lam può risultare inquietante in quanto genera un non luogo infatti non è né un luogo dell” io né un luogo del” noi “, ma è un luogo di separazione: uno spazio altro, di alterità. E’ in questo spazio che è possibile sperimentare il superamento sensoriale dei nostri limiti, per attivare un processo di rinnovamento e di auto-trascendenza.
Anurendra Jegadeva, Yesterday in a Padded Room (2015)
Zulkifli Yosuff, Tun Eazak Speech Series – The Green Book, Photo by Andrea Avezzù
H.H. Lim, Sitting Sculputure, photo by Andrea Avezzù
H.H. Lim, Patience, Enter e Parallel Word e Red Room, photo by Andrea Avezzù